lunedì 25 settembre 2017

Isola d'Elba


La nostra vacanza all'Isola d'Elba si potrebbe riassumere così: la sorpresa di trovare la nostra dimensione.
Avevo accennato QUI di come i primi anni in vacanza con Vittoria avessimo faticato a trovare e capire quale modalità di vacanza al mare fosse più adatta per noi: in appartamento non mi ero riposata molto, tra pulizie e cucina; in albergo mi ero ritrovata imprigionata in camera alle prese con una bimba nel pieno dei terribili due o durante interminabili riposini pomeridiani, avevo vissuto come uno stress i pranzi e le cene a orari fissi e per cui doversi sempre rendere presentabili. Il desiderio di trascorrere dei sereni giorni al mare si cozzava con il timore di vedersi ripetere una delle due esperienze precedenti.

(Il Bat-Traghetto Moby che ci ha portato sull'isola)
 
Il merito è tutto della pazienza certosina con cui mio marito si mette alla ricerca delle mete giuste per noi e la cura con cui pianifica le nostre vacanze fin nei minimi particolari, se quest'anno abbiamo avuto una settimana da sogno. Ecco, se dovessi mai promuovervi un tour operator, vi suggerirei lui.
Sua la scoperta di questa recente forma di soggiorno: il glamping, un mix perfetto tra la tenda di un campeggio e l'appartamento, la gioia di vivere in mezzo alla natura, con tutte le comodità di un appartamento.

(La tenda Adventure Lodge Safari del Camping Village Stella Mare)
 
Abbiamo assaporato la libertà di fare ciò che più ci piaceva, liberi da obblighi e doveri: cucinavamo quando ne avevamo voglia, altrimenti mangiavamo nelle numerose soluzioni presenti all'interno del campeggio o lì vicino (ristorante, pizzeria, bar, rosticceria, supermercato); passavamo le nostre giornate sempre all'aperto tra spiaggia, piscina, terrazzo e giardini (anche in quell'unico giorno di pioggia che abbiamo avuto); ci siamo scoperti un po' selvaggi vivendo sempre in costume o poco più, contenti di considerare una doccia quella di acqua dolce fatta in spiaggia dopo il bagno in mare, liberi di non lavarci i capelli la sera perché tanto sarebbero stati di nuovo a mollo il mattino dopo, pigri al punto giusto per confessare di non avere voglia di visitare l'isola. Ci bastava quell'angolo di paradiso.

(In acqua fino all'ultimo raggio di sole)
 
Un paio di volta siamo comunque usciti. Una sera siamo andati a visitare Porto Ferraio, passeggiato tra le stradine del borgo vecchio circondato da mura, visto la casa dove aveva vissuto Napoleone, cenato da “Acqua Cheta” con un'ottima cucina casalinga a base di pesce e fatto alcuni acquisti tra i negozi di souvenir e le bancarelle di artigiani.
L'ultimo giorno, prima di prendere il traghetto, abbiamo trascorso alcune ore a Capoliveri, borgo stupendo abbarbicato sulla cima di una collina da cui si gode una bellissima vista sul mare. A pranzo ci siamo deliziati con il menù sempre a base di pesce proposto da “Trattoria Moderna” e prima di partire abbiamo fatto incetta di vino e olio dall'azienda agricola “La Fazenda”.

(La spiaggia di Capo Bianco da cui abbiamo salutato il mare)
 
Ora, insieme a tanti bellissimi ricordi, c'è la voglia di ritornare.

lunedì 18 settembre 2017

un'imprecisa cosa felice


Un giorno ho incontrato una persona che mi ha detto: “Io non voglio essere chiamata malata. Non voglio che si dica malattia. Non voglio proprio che vengano dette queste parole in mia presenza”. Era molto arrabbiata. Non so nulla di quella persona, del suo passato, del suo vissuto, del suo presente. Non so nemmeno il suo nome. La capisco; in diversi momenti urlava forte dentro di me “Io non sono la mia malattia!”, non volevo che tutto si riducesse solo a questo, non volevo che gli altri non vedessero altro di me all'infuori di questo. Ognuno ha le sue motivazioni e tutte sono valide.
La malattia purtroppo (o per fortuna?) ti mette di fronte a un fatto che tendiamo a dimenticare, a non voler prendere in considerazione, a negare: siamo mortali. Quante volte pensate, parlate, discutete onestamente e francamente di morte? Rispondo io per voi: mai (ci sono argomenti più interessanti, in effetti). Mai, se non siamo obbligati a causa di una malattia o di un lutto. E anche quando lo facciamo usiamo frasi fatte, di circostanza. La malattia e la morte sono argomenti tabù, intimi, che affrontiamo, se li affrontiamo, nella nostra solitudine.
Io stessa non ne parlo, anche se da quando mi sono ammalata ci penso spesso: ho dovuto, mio malgrado, farci i conti con questa eventualità (che tanto eventuale non è, perché è il destino di tutti, è il “quando” a mandarci in crisi). Pensandoci ho scoperto che non ho paura di morire (di soffrire sì), ovviamente spero che accada il più tardi possibile, ma non mi preoccupo, non passo le mie giornate pensando “Oddio e se muoio?!”. Sapete invece qual'è la cosa che mi preoccupa e mi fa davvero stare in pensiero, che mi fa venire un groppo in gola e una stretta allo stomaco? Il pensiero di chi rimane e deve affrontare questa perdita. Al confronto, morire è facile. (Suona forte, mi rendo conto)
Quando ho questi pensieri, quando mi assale la paura, ho un bisogno sfrenato e disperato di essere rassicurata, di sapere che staranno tutti bene, che se la caveranno (VV soprattutto) anche senza di me; ho quasi la necessità di sentirmi inutile, di sapere che non hanno bisogno di me per essere felici e stare bene (egocentrica?). Non vorrei che nessuno soffrisse per me e, se questo è inevitabile, spero passi presto, che ritornino a vivere, a sorridere, a sognare. Un giorno ho letto questa frase su Internet che riassume benissimo che cos'è il dolore per una perdita:

Grief felt like carrying a huge bag of bricks: at first, I thought, ‘I’m not strong enough to carry this much grief; it will kill me.’ But as time passed, the bag got lighter and lighter. I can’t ever put the bag down, it is with me forever, but now I’m strong enough to carry it.

(Il dolore è come portare un'enorme borsa piena di mattoni: all'inizio pensavo “Non sono abbastanza forte per portare tutto questo dolore; mi ucciderà.” Ma man man che il tempo passava, la borsa diventava sempre più leggera. Non potrò mai posare questa borsa, starà con me per sempre, ma ora sono forte abbastanza per portarla.)

Ecco, questo secondo me è il messaggio del libro turineisa di Silvia Greco “un'imprecisa cosa felice” edito da Hacca: un messaggio di speranza, un messaggio di forza.

Resti lì, attonito, stravolto, incredulo, davanti a quella scena assurda. Com'è possibile? Non si può morire così, non puoi crederci. Amore mio, no, ti prego, no, mamma, papà, amica mia, nonno, fratello. Zia. E' uno scherzo di pessimo gusto.
Ma poi inizi a vederci un segno. Lei, lui, loro se ne sono andati lasciandoti un sorriso. Adesso te ne accorgi, lo vedi. Lo acciuffi e te lo rimetti in bocca.

lunedì 11 settembre 2017

Cracovia


I pierogi sono uno dei piatti tipici polacchi, diffusi però anche in Russia, Ucraina e Bielorussa. In genere questi ravioli di pasta a mezzaluna vengono riempiti di carne, verdure o formaggio (ma c’è anche chi li prepara con la frutta) e serviti con un condimento di panna acida. Arrivati probabilmente dall’Asia in Polonia nel tredicesimo secolo, nel passato venivano preparati in occasione delle feste, ad esempio a Natale. Oggi li si gusta molto più spesso.
In teoria.

(Cstello Reale del Wavel)
In pratica per ben due volte ci siamo sentiti rispondere che erano finiti e l'unica volta che li abbiamo trovati era rimasta solo una porzione, che ci siamo divisi in cinque. E' un po' come andare a Napoli e sentirsi dire che l'impasto per la pizza è finito. Sono sicura che se fossi entrata nei numerosi McDonald che pullulavano in tutti i laghi e in tutti i luoghi, anche in mezzo al nulla, non avrei avuto difficoltà a mangiare un hamburger.
Perché parto da qui per raccontarvi del mio soggiorno a Cracovia? Perché, secondo me, è l'emblema di quello che sta capitando a questa città a causa del turismo di massa. Non mi ero mai preoccupata di questo fenomeno e nemmeno della globalizzazione, se non superficialmente, e recentemente avevo avuto un moto di stizza quando Tiziano Terzani se ne lamentava in “Un indovino mi disse”, sono del parere che viaggiare è uno dei modi migliori per conoscere e aprire la mente, oltre a portare lavoro quindi: ben vengano i turisti!


Cosa succede però se il turismo prende il sopravvento e le città si trasformano (si snaturano) per accogliere i visitatori? Succede che atterri in una città straniera e la prima cosa che vedi sono: Zara, Stradivarius, H&M, Starbucks e McDonald (e questo vale anche per le nostre città). Succede che fatichi a capire, comprendere, gustare e vedere la cultura e le tradizioni per cui hai deciso di impiegare tempo e denaro. Succede che non avviene nessun incontro (l'unica chiacchierata che ho fatto è stata con una signora francese), che sei uno straniero in mezzo a tanti stranieri in visita e sei trasparente, solo un'entità a cui fornire servizi in cambio di denaro. E i servizi che ti offrono non sono sempre quelli che tu vorresti...

(L'angolo selfie alla mostra del quadro "La dama con l'ermellino")
Non ho gli strumenti per fare un'indagine sociologica ed economica e lungi da me dal volerlo fare; queste sono solo le sensazioni che ho provato mentre soggiornavo a Cracovia. Mi sono anche interrogata più e più volte su dove stessi sbagliando: non sono riuscita ad allontanarmi dai luoghi troppo turistici? Ho visitato i luoghi sbagliati? (Ma abbiamo macinato una media di dieci chilometri al giorno!) Non sono stata abbastanza aperta con gli abitanti? Non mi sono informata bene?

(L'interno del ristorante "Klezmer hois" nel quartiere ebraico, dove abbiamo pranzato)
Ma com'è Cracovia, vi starete domandando?
E' bella. E' un'antica città medievale che, se riesci a sollevare lo sguardo dalla massa di gente che ha invaso le sue strade, mostra ancora i segni del suo glorioso passato, composto da miti, re, leggende e storia.

(Il trombettiere che suona l'hejnal allo scoccare dell'ora)
Se chiudevo gli occhi riuscivo ad immaginare le carrozze e i carri, i negozianti, mercanti e venditori provenienti dai diversi paesi d'Europa che affollavano l'enorme piazza Rynek Głơwny e a scorgere gli studenti che affollavano i vicoli di questa importante città universitaria. Il libro che ho scelto per accompagnare questo mio viaggio è stato, devo confessare, di grande aiuto nell'aiutarmi ad apprezzare questa città che faticavo a scovare.

(Rynek Głơwny)
 
In questi sei giorni abbiamo prevalentemente passeggiato e ammirato i diversi quartieri; essendoci VV abbiamo preferito evitare la visita ai campi di concentramento così come al museo dell'olocausto e quello di Schindler, reputandola ancora troppo piccola per affrontare questi argomenti e temendo rimanesse sconvolta di fronte alle immagini. 


Grande successo ha avuto la gita di un giorno fatta alla miniera di sale di Wieliczka, patrimonio dell'umanità dell'Unesco. La visita inizia con la discesa di 380 gradini che portano a una profondità di 135 metri; tra i vari capolavori, quello della Cappella di Santa Cunegonda: ogni singolo elemento, dai candelabri all'altare, è fatto di sale.


Cracovia, città fondata sconfiggendo un drago, sentiremo parlare ancora per molto tempo della tua leggenda tra le mura di casa nostra.

(Il drago Smok)
(Abbiamo sudato sette camice per trovare questo libro e siamo riusciti ad accaparrarci l'ultima copia in inglese)

lunedì 4 settembre 2017

La vita, ultimamente 26


A svegliarci era quasi sempre il suono delle campane delle otto. Qualche coccola, lotta e solletico sotto le coperte e poi, immancabilmente, partiva la richiesta di VV: “Posso andare a svegliare gli zii (o i nonni)?”.
Dopo una lauta colazione tutti insieme (e di abbondanti in montagna erano anche pranzi, merende e cene!) ci si preparava per la passeggiata, quasi ogni giorno una destinazione diversa: pietre, torrenti, pozzanghere, ragnatele, buse (sapete tutti cosa sono?), “Non ti pungere con i rovi”, formiche, tane, “Attenzione alle ortiche”, rametti, foglioline, “Batti il bastone sulle pietre per scacciare le vipere”, terra, fiori, farfalle, rondini. Abbiamo visto tre Bambi, due serpenti, le rondini, falchetti, poiane, un rospo, mucche e capre in abbondanza, cani da pastore di cui uno birbone. VV nella sua stalla immaginaria aveva anche un cinghiale goloso di mollette da bucato, quante corse lungo il terrazzo per togliergliele dalla bocca...


Il mio momento preferito della giornata era il dopo pranzo quando, dopo aver letto una favola a VV, mi coricavo con lei e ci addormentavamo una dentro il respiro dell'altra. Dopo poco io mi svegliavo e mi mettevo a leggere, rimanendo al suo fianco fino al suo risveglio.


Merenda e poi altri giochi, passeggiate, partite a carte, corse e giri in bici fino all'ora di cena. Una volta preparateci per la notte, ci coricavamo di nuovo insieme e VV si addormentava guardandomi leggere. Secondo me il paradiso non è molto diverso.
Non è stato tutto rose e fiori però; ho avuto i miei momenti di nervosismo, vuoi per la convivenza stretta con altre persone, per l'assenza o il numero davvero esiguo di momenti in cui stare da sola (e per me la solitudine è fon-da-men-ta-le), vuoi perché dopo tanto dolce far niente smaniavo anche per fare qualcosa, ma ben consapevole che una volta tornata a casa sarebbe finita la pacchia (confermo) e quindi oscillavo tra il restare e andare, tra l'oziare e l'agire, tra il “Vorrei che le vacanze non finissero mai” e “Basta non ne posso più, quando inizia la scuola?!”.

Direi tutto nella norma, no?

Volenti o nolenti, il giorno della partenza è arrivato, siamo tornati a casa e abbiamo trovato il caldo infernale ad aspettarci, quello per cui ogni anno scappiamo in montagna. Questa la nostra espressione davanti a cotanta ostinazione:


Ho perso il conto delle lavatrici fatte, e quelle ancora da fare, devo sbrigarmi perché per noi le vacanze non sono ancora finite. Questa volta la nostra destinazione sarà il mare. E poi l'estate sarà terminata, per davvero.

Che si legge in famiglia”, la mia.